di Giulia Francesca Panciera
La televisione pubblica Usa investe piú di 600 mila dollari in un progetto che poi decide di non mandare in onda. Il documentario Muslim vs Islamist viene censurato perché prova come gli estremisti islamici stiano cercando di creare "societá parallele", in America ed in Europa, dove l'unica legge ammessa è la Sharia.
L'establishment dei media americani, in gran parte liberal e nemico dei conservatori, in nome del "freedom of speech" ha sempre difeso il diritto di pubblicare e mandare in onda anche l'indifendibile. Ma adesso sembra aver fatto un repentino dietrofront dinanzi a un documentario sull'estremismo islamico che stava per essere trasmesso dalla Pbs, importante rete televisiva pubblica americana. I paladini della libertà d'espressione, stavolta, si sono strasformati in difensori della censura.
Islam vs. Islamist: Voices from the Muslim Center" è uno dei documentari inizialmente previsti in un progetto chiamato America at a Crossroads, una miniserie nata con l'intento di rappresentare l'impatto che gli attentati dell'11 settembre hanno avuto non solo sulla società americana, ma sul mondo occidentale nel suo complesso.
Il documentario, costato più di 600 mila dollari, indagava sul conflitto emerso nelle comunitá islamiche americane ed europee dopo gli attacchi del 2001, testimoniando come i mussulmani moderati siano stati messi a tacere, con le minacce, dalle fazioni più radicali. Non solo. Documentava, in modo chiaro ed accurato, come uno degli obiettivi degli estremisti islamici sia proprio la creazione di società parallele, di veri e propri "microstati" regolati dalla Sharia all'interno degli Stati occidentali.
Bollato come fazioso dal managment del canale pubblico, “Islam vs Islamist” mostra in realtà ambedue i volti della religione di Maometto. Non omette di citare i mussulmani che, seguendo un modello di pace e tolleranza, denunciano – spesso pagando caro - la diffusione del terrore in nome dell'Islam.
Riporta casi di mussulmani che, per avere difeso il modello di democrazia liberale occidentale, sono stati attaccati dai loro correligionari impegnati a costruire un mondo dove l'Islam sia l'unico sistema politico-religioso. Così, anche grazie a questa censura, una delle domande piú ricorrenti tra gli americani, e cioè se esistano davvero mussulmani moderati, fará fatica a trovare risposta.
© Confronto
Friday, May 18, 2007
I sindaci americani: meno privacy, piu' sicurezza
di Giulia Francesca Panciera
L'alleanza tra sindaci americani che, con "Mayors against illegal guns", si batte per l'abolizione di un emendamento che limita l'accesso ad informazioni sensibili legate alle armi da fuoco. Ad un anno di distanza, la coalizione bipartisan continua a crescere raccogliendo adesioni da tutte le maggiori città degli Stati Uniti.
E’ l'argomento sulla bocca di tutti i politici americani dal 12 settembre 2001: è giusto limitare la privacy delle persone per garantire più sicurezza al proprio Paese? Il quesito se lo sono posto anche centinaia di sindaci americani che, aderendo a "Mayors against illegal guns", coalizione bipartisan di primi cittadini, si battono per chiedere ai membri del Congresso la modifica ad una legge che di fatto, in nome della privacy, rallenta e limita il lavoro delle forze dell'ordine nella quotidiana battaglia contro il traffico illegale delle armi. Ma sono in molti, a Washington, quelli che si oppongono alle loro richieste.
Dopo la tragedia al campus del Virginia Tech il confronto tra i due schieramenti si è fatto ancora più aspro. Nata un anno fa per iniziativa congiunta del primo cittadino di New York, Micheal Bloomberg, e di quello di Boston, Thomas Menino, l'organizzazione ha raggiunto un livello di adesioni tale da rappresentare, con i suoi sindaci, oltre 30 milioni di americani. Animati dall'interesse comune di stanare il traffico illegale di armi da fuoco e allarmati dall'aumento di omicidi nelle proprie cittá, chiedono l'abolizione del cosiddetto "Tiahrt Amendment".
L'emendamento, che prende il nome del deputato repubblicano del Kansas, Todd Tiahrt, che lo propose, limita non solo l'accesso, ma anche l'uso, da parte di forze dell'ordine ed amministrazioni locali, dei dati sulle armi da fuoco in possesso dell'ATF (Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, l'ente federale americano che regola, tra le altre cose, la vendita ed il possesso di armi ed esplosivi). Se queste restrizioni vengono giustificate, da un lato, dalla tutela della privacy dei possessori di armi, dall'altro hanno un effetto deleterio per i tutori della legge, limitandone il campo investigativo e giudiziario.
Come sottolineato più volte da Bloomberg, una lezione che gli Stati Uniti avrebbero dovuto imparare dagli attacchi dell'11 settembre è proprio "la necessità di dialogo tra le varie forze di polizia". La recentissima strage al Virginia Tech, il campus universitario nella quale hanno perso la vita 32 studenti, non ha fatto altro che ricordare nel modo più tragico come lo scambio di informazioni tra i vari organi federali sia vitale. A causa dei suoi problemi mentali, infatti, il killer Seung-Hui Cho era stato giudicato "pericoloso per sé stesso".
Questa speciale sentenza, emessa nel 2005, lo avrebbe inserito tra l'elenco di persone al quale sarebbe stato proibito l'acquisto di armi su tutto il territorio americano. Purtroppo il suo nome non è mai stato trasmesso alle autoritá statali o federali, impedendo quindi i dovuti accertamenti. Una bugia sul suo stato di salute mentale e poche centinaia di dollari hanno dato infatti la possibilità al giovane psicopatico di acquistare legalmente le armi e le munizioni necessarie per portare a termine il massacro premeditato.
© Confronto
L'alleanza tra sindaci americani che, con "Mayors against illegal guns", si batte per l'abolizione di un emendamento che limita l'accesso ad informazioni sensibili legate alle armi da fuoco. Ad un anno di distanza, la coalizione bipartisan continua a crescere raccogliendo adesioni da tutte le maggiori città degli Stati Uniti.
E’ l'argomento sulla bocca di tutti i politici americani dal 12 settembre 2001: è giusto limitare la privacy delle persone per garantire più sicurezza al proprio Paese? Il quesito se lo sono posto anche centinaia di sindaci americani che, aderendo a "Mayors against illegal guns", coalizione bipartisan di primi cittadini, si battono per chiedere ai membri del Congresso la modifica ad una legge che di fatto, in nome della privacy, rallenta e limita il lavoro delle forze dell'ordine nella quotidiana battaglia contro il traffico illegale delle armi. Ma sono in molti, a Washington, quelli che si oppongono alle loro richieste.
Dopo la tragedia al campus del Virginia Tech il confronto tra i due schieramenti si è fatto ancora più aspro. Nata un anno fa per iniziativa congiunta del primo cittadino di New York, Micheal Bloomberg, e di quello di Boston, Thomas Menino, l'organizzazione ha raggiunto un livello di adesioni tale da rappresentare, con i suoi sindaci, oltre 30 milioni di americani. Animati dall'interesse comune di stanare il traffico illegale di armi da fuoco e allarmati dall'aumento di omicidi nelle proprie cittá, chiedono l'abolizione del cosiddetto "Tiahrt Amendment".
L'emendamento, che prende il nome del deputato repubblicano del Kansas, Todd Tiahrt, che lo propose, limita non solo l'accesso, ma anche l'uso, da parte di forze dell'ordine ed amministrazioni locali, dei dati sulle armi da fuoco in possesso dell'ATF (Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, l'ente federale americano che regola, tra le altre cose, la vendita ed il possesso di armi ed esplosivi). Se queste restrizioni vengono giustificate, da un lato, dalla tutela della privacy dei possessori di armi, dall'altro hanno un effetto deleterio per i tutori della legge, limitandone il campo investigativo e giudiziario.
Come sottolineato più volte da Bloomberg, una lezione che gli Stati Uniti avrebbero dovuto imparare dagli attacchi dell'11 settembre è proprio "la necessità di dialogo tra le varie forze di polizia". La recentissima strage al Virginia Tech, il campus universitario nella quale hanno perso la vita 32 studenti, non ha fatto altro che ricordare nel modo più tragico come lo scambio di informazioni tra i vari organi federali sia vitale. A causa dei suoi problemi mentali, infatti, il killer Seung-Hui Cho era stato giudicato "pericoloso per sé stesso".
Questa speciale sentenza, emessa nel 2005, lo avrebbe inserito tra l'elenco di persone al quale sarebbe stato proibito l'acquisto di armi su tutto il territorio americano. Purtroppo il suo nome non è mai stato trasmesso alle autoritá statali o federali, impedendo quindi i dovuti accertamenti. Una bugia sul suo stato di salute mentale e poche centinaia di dollari hanno dato infatti la possibilità al giovane psicopatico di acquistare legalmente le armi e le munizioni necessarie per portare a termine il massacro premeditato.
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Usa, le elezioni sono una sfida a colpi di click
di Giulia Francesca Panciera
Nonostante manchino ancora diversi mesi alle primarie la corsa per aggiudicarsi la candidatura alla Casa Bianca è cominciata da tempo, soprattutto sul web. Democratici e Repubblicani fanno a gara per trovare supporter su Internet. E qualche volta, come ha sperimentato sulla propria pelle McCain, cadono vittime di pesanti scherzi.
Il massiccio spiegamento di forze on line, a sostegno dei possibili candidati in corsa per le prossime elezioni americane, testimonia ancora una volta come il ruolo di Internet si stia sempre più espandendo e diversificando.
L’attenzione dedicata alla comunicazione via web, da parte di chi spera di avere un ruolo di primo piano nella corsa alla Casa Bianca, è più che raddoppiata rispetto alle precedenti tornate elettorali. Gli staff dei candidati contano su “internet strategist” di prim’ordine ed i siti personali, pur rimanendo un validissimo strumento per la raccolta dei preziosi finanziamenti che, da sempre, muovono le mastodontiche campagne elettorali americane, si sono evoluti.
L’aggiornamento è meticoloso e veloce, per non dire istantaneo, mentre il rapporto con i propri supporters è rapido e diretto attraverso l’utilizzo di video, chat, blogs e gruppi di discussione interattivi. Un uso così dinamico della rete potrebbe anche dimostrarsi la carta vincente per arrivare ad un target sempre molto difficile da raggiungere, quello dei giovani elettori.
Questa è sicuramente una delle ragioni che ha spinto molti degli aspiranti candidati alle prossime elezioni americane, ad aderire alle iniziative di YouTube e Myspace, che con “YouTube You Choose '08” e “Myspace impact” hanno creato delle sezioni ad hoc per le presidenziali del 2008. L’invito è stato raccolto da molti candidati. Tra di essi i democratici Barack Obama, John Edwards, Hillary Clinton, Joseph Biden, Bill Richardson e Dennis Kucinich. Ci sono anche i repubblicani Rudy Giuliani, Mitt Romney e John McCain.
Quest’ultimo, lo scorso 27 marzo, proprio su Myspace è stato vittima di un piccolo scherzo, come lo ha definito il suo autore, Mike Davidson. Il senatore dell’Arizona ha visto modificare la propria pagina da un annuncio molto poco ‘republican’, nel quale informava i propri sostenitori di aver cambiato posizione in fatto di coppie gay, dando pieno sostegno ai matrimoni tra omosessuali, in particolare quelli tra donne appassionate.
Hackeraggio pre elettorale? No, solamente un errore del team di McCain che, per la costruzione della pagina, avrebbe utilizzato un’immagine collegata direttamente al sito di Davidson, il quale una volta accortosi della cosa – soprattutto dell’assenza di riferimenti nei credits - è andato a modificare quella sul proprio server, inserendo il bizzarro annuncio.
© Confronto
Nonostante manchino ancora diversi mesi alle primarie la corsa per aggiudicarsi la candidatura alla Casa Bianca è cominciata da tempo, soprattutto sul web. Democratici e Repubblicani fanno a gara per trovare supporter su Internet. E qualche volta, come ha sperimentato sulla propria pelle McCain, cadono vittime di pesanti scherzi.
Il massiccio spiegamento di forze on line, a sostegno dei possibili candidati in corsa per le prossime elezioni americane, testimonia ancora una volta come il ruolo di Internet si stia sempre più espandendo e diversificando.
L’attenzione dedicata alla comunicazione via web, da parte di chi spera di avere un ruolo di primo piano nella corsa alla Casa Bianca, è più che raddoppiata rispetto alle precedenti tornate elettorali. Gli staff dei candidati contano su “internet strategist” di prim’ordine ed i siti personali, pur rimanendo un validissimo strumento per la raccolta dei preziosi finanziamenti che, da sempre, muovono le mastodontiche campagne elettorali americane, si sono evoluti.
L’aggiornamento è meticoloso e veloce, per non dire istantaneo, mentre il rapporto con i propri supporters è rapido e diretto attraverso l’utilizzo di video, chat, blogs e gruppi di discussione interattivi. Un uso così dinamico della rete potrebbe anche dimostrarsi la carta vincente per arrivare ad un target sempre molto difficile da raggiungere, quello dei giovani elettori.
Questa è sicuramente una delle ragioni che ha spinto molti degli aspiranti candidati alle prossime elezioni americane, ad aderire alle iniziative di YouTube e Myspace, che con “YouTube You Choose '08” e “Myspace impact” hanno creato delle sezioni ad hoc per le presidenziali del 2008. L’invito è stato raccolto da molti candidati. Tra di essi i democratici Barack Obama, John Edwards, Hillary Clinton, Joseph Biden, Bill Richardson e Dennis Kucinich. Ci sono anche i repubblicani Rudy Giuliani, Mitt Romney e John McCain.
Quest’ultimo, lo scorso 27 marzo, proprio su Myspace è stato vittima di un piccolo scherzo, come lo ha definito il suo autore, Mike Davidson. Il senatore dell’Arizona ha visto modificare la propria pagina da un annuncio molto poco ‘republican’, nel quale informava i propri sostenitori di aver cambiato posizione in fatto di coppie gay, dando pieno sostegno ai matrimoni tra omosessuali, in particolare quelli tra donne appassionate.
Hackeraggio pre elettorale? No, solamente un errore del team di McCain che, per la costruzione della pagina, avrebbe utilizzato un’immagine collegata direttamente al sito di Davidson, il quale una volta accortosi della cosa – soprattutto dell’assenza di riferimenti nei credits - è andato a modificare quella sul proprio server, inserendo il bizzarro annuncio.
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Violenza sulle donne, l'Onu punta ancora il dito su Israele
di Giulia Francesca Panciera
La commissione delle Nazioni Unite per lo Status delle Donne nel mondo accusa Israele di violare i diritti delle donne palestinesi nei territori occupati, ignorando le atrocità commesse nella maggioranza dei paesi islamici o in Cina. Anche l’Unione europea vota una risoluzione che incontra il “no” dei soli Usa e Canada.
E’ Israele il Paese che, in tutto il mondo, tratta peggio le donne. Più degli stati dove vige la sharia e alle donne è vietato andare a scuola, lavorare, guidare l’automobile. Più di quei Paesi dove stupri etnici e aborti forzati sono all’ordine del giorno. E’ la sconcertante conclusione cui è giunta, anche quest’anno, la commissione delle Nazioni Unite per lo Status delle Donne nel mondo.
Istituita nel 1946, questa commissione ha come scopo ufficiale principale quello di valutare il progresso dell’uguaglianza dei diritti delle donne nel mondo in campo politico, economico e sociale. La commissione si riunisce ogni anno per dieci giorni, generalmente tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, ed elabora raccomandazioni al Consiglio Economico e Sociale dell’Onu su problemi che richiedono interventi immediati.
Nella sua ultima sessione, la commissione ha individuato Israele come il solo stato al mondo in palese violazione dei diritti delle donne: quelle palestinesi nei territori occupati. La notizia stupisce proprio per quello strabismo a senso unico che caratterizza spesso le Nazioni Unite. Nel rapporto della Commissione, infatti, non si trovano, come sarebbe lecito aspettarsi, denunce relative alla situazione delle donne nel vicino Iran, lapidate a morte in caso di adulterio.
Non vengono menzionate – a puro titolo d’esempio - Giordania o Siria, dove il delitto d’onore è una prassi consolidata non punibile per legge. Nessun accenno alla Cina, che per mantenere a regime il controllo pianificato delle nascite non disdegna l’uso di sterilizzazioni o aborti forzati. Nemmeno una riga sul genocidio che sta devastando il Darfur, dove violenze sessuali e mutilazioni sono all’ordine del giorno.
La risoluzione, presentata dal Pakistan per conto del cosiddetto "Gruppo dei 77" – l’organizzazione intergovernativa formata dai paesi in via di sviluppo - più la Cina, è stata approvata incassando solo due voti contrari, quelli di Canada e Stati Uniti. Questi ultimi, spiegando la ragioni del loro dissenso, hanno sottolineato che “risoluzioni a senso unico” come questa, che ignorano le conseguenze dovute agli attacchi terroristici palestinesi ai danni delle donne israeliane, finiscono per limitare la capacità delle Nazioni Unite di svolgere un ruolo costruttivo in Medio Oriente.
La Germania, al contrario, a nome e per conto dell’Unione Europea, pur dichiarandosi “profondamente preoccupata” per l’impatto che la situazione nei territori occupati ha sia sulle donne palestinesi che su quelle israeliane, ha deciso di dare il proprio voto favorevole ad una risoluzione che, come ha sostenuto il rappresentante israeliano, altro non fa che sottolineare “il forte contrasto tra realtà e retorica” che regna alle Nazioni Unite.
© Confronto
La commissione delle Nazioni Unite per lo Status delle Donne nel mondo accusa Israele di violare i diritti delle donne palestinesi nei territori occupati, ignorando le atrocità commesse nella maggioranza dei paesi islamici o in Cina. Anche l’Unione europea vota una risoluzione che incontra il “no” dei soli Usa e Canada.
E’ Israele il Paese che, in tutto il mondo, tratta peggio le donne. Più degli stati dove vige la sharia e alle donne è vietato andare a scuola, lavorare, guidare l’automobile. Più di quei Paesi dove stupri etnici e aborti forzati sono all’ordine del giorno. E’ la sconcertante conclusione cui è giunta, anche quest’anno, la commissione delle Nazioni Unite per lo Status delle Donne nel mondo.
Istituita nel 1946, questa commissione ha come scopo ufficiale principale quello di valutare il progresso dell’uguaglianza dei diritti delle donne nel mondo in campo politico, economico e sociale. La commissione si riunisce ogni anno per dieci giorni, generalmente tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, ed elabora raccomandazioni al Consiglio Economico e Sociale dell’Onu su problemi che richiedono interventi immediati.
Nella sua ultima sessione, la commissione ha individuato Israele come il solo stato al mondo in palese violazione dei diritti delle donne: quelle palestinesi nei territori occupati. La notizia stupisce proprio per quello strabismo a senso unico che caratterizza spesso le Nazioni Unite. Nel rapporto della Commissione, infatti, non si trovano, come sarebbe lecito aspettarsi, denunce relative alla situazione delle donne nel vicino Iran, lapidate a morte in caso di adulterio.
Non vengono menzionate – a puro titolo d’esempio - Giordania o Siria, dove il delitto d’onore è una prassi consolidata non punibile per legge. Nessun accenno alla Cina, che per mantenere a regime il controllo pianificato delle nascite non disdegna l’uso di sterilizzazioni o aborti forzati. Nemmeno una riga sul genocidio che sta devastando il Darfur, dove violenze sessuali e mutilazioni sono all’ordine del giorno.
La risoluzione, presentata dal Pakistan per conto del cosiddetto "Gruppo dei 77" – l’organizzazione intergovernativa formata dai paesi in via di sviluppo - più la Cina, è stata approvata incassando solo due voti contrari, quelli di Canada e Stati Uniti. Questi ultimi, spiegando la ragioni del loro dissenso, hanno sottolineato che “risoluzioni a senso unico” come questa, che ignorano le conseguenze dovute agli attacchi terroristici palestinesi ai danni delle donne israeliane, finiscono per limitare la capacità delle Nazioni Unite di svolgere un ruolo costruttivo in Medio Oriente.
La Germania, al contrario, a nome e per conto dell’Unione Europea, pur dichiarandosi “profondamente preoccupata” per l’impatto che la situazione nei territori occupati ha sia sulle donne palestinesi che su quelle israeliane, ha deciso di dare il proprio voto favorevole ad una risoluzione che, come ha sostenuto il rappresentante israeliano, altro non fa che sottolineare “il forte contrasto tra realtà e retorica” che regna alle Nazioni Unite.
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Usa: Repubblicano, democratico o Unity 08?
di Giulia Francesca Panciera
La scelta di candidati bipartisan alle prossime presidenziali americane attraverso un sistema di voto on line. Per la prima volta nella storia della politica americana (e non) l’elezione bipartisan dei futuri candidati alla presidenza e alla vicepresidenza degli Stati Uniti d’America attraverso una convention rigorosamente on line.
Se non avesse tra i suoi padri fondatori nomi di tutto rilievo nella politica americana, potrebbe, con molta probabilità, essere considerato l’ennesimo movimento pronto ad urlare via web la propria insoddisfazione per come viene gestita la politica negli Stati Uniti o per come siano cambiati i partiti che la rappresentano. Non è questo il caso di Unity08, che ha in mente un progetto ambizioso unico: quello di effettuare per la prima volta nella storia della politica americana (e non) l’elezione bipartisan dei futuri candidati alla presidenza e alla vicepresidenza degli Stati Uniti attraverso una convention rigorosamente on line.
Nato nel 2006 come organizzazione non-profit, vede tra i suoi fondatori figure note al mondo politico americano, come i democratici Gerald Rafshoon e Hamilton Jordan (entrambi ebbero ruoli di primissimo piano durante la presidenza di Jimmy Carter) o Doug Bailey ( per anni consulente del partito Repubblicano e fondatore di “Thehotline”, il famoso bollettino quotidiano di informazione politica). E ancora l’ex governatore indipendente del Maine, Angus King, oltre ad importanti nomi legati al mondo accademico statunitense. Il movimento conta tra i suoi più entusiasti sostenitori anche Sam Waterston, star della televisione americana, noto agli appassionati della fiction NBC “Law & Order” come il viceprocuratore distrettuale Jack McCoy.
L’idea di Unity08 è scaturita dai risultati di una ricerca, commissionata dal movimento ed effettuata dalla Princeton Survey Research. Lo studio ha dimostrato come ben il 74 per cento degli americani sia insoddisfatto di come vadano le cose nel proprio paese, registrando il dissenso piu’ alto degli ultimi 13 anni. Oltre l’80 per cento degli intervistati, inoltre, non ha avuto dubbi nel sostenere che il proprio paese si sia polarizzato attorno ai partiti Repubblicano e Democratico e che Washington non sembri fare molti progressi per risolvere i problemi nazionali. Ma soprattutto il 73 per cento è d’accordo nel sostenere che sarebbe una buona idea per gli Stati Uniti quella di avere più scelte nelle elezioni presidenziali del 2008 che non siano limitati a quelle proposte dai due partiti esistenti. Unity08 non vuole proporsi all’elettorato americano come un terzo partito. Al contrario vuole dare una scossa a quelli già esistenti, facendo da microfono ai milioni di cittadini che spingono verso un ritorno a posizioni più centriste della politica americana.
© Confronto
La scelta di candidati bipartisan alle prossime presidenziali americane attraverso un sistema di voto on line. Per la prima volta nella storia della politica americana (e non) l’elezione bipartisan dei futuri candidati alla presidenza e alla vicepresidenza degli Stati Uniti d’America attraverso una convention rigorosamente on line.
Se non avesse tra i suoi padri fondatori nomi di tutto rilievo nella politica americana, potrebbe, con molta probabilità, essere considerato l’ennesimo movimento pronto ad urlare via web la propria insoddisfazione per come viene gestita la politica negli Stati Uniti o per come siano cambiati i partiti che la rappresentano. Non è questo il caso di Unity08, che ha in mente un progetto ambizioso unico: quello di effettuare per la prima volta nella storia della politica americana (e non) l’elezione bipartisan dei futuri candidati alla presidenza e alla vicepresidenza degli Stati Uniti attraverso una convention rigorosamente on line.
Nato nel 2006 come organizzazione non-profit, vede tra i suoi fondatori figure note al mondo politico americano, come i democratici Gerald Rafshoon e Hamilton Jordan (entrambi ebbero ruoli di primissimo piano durante la presidenza di Jimmy Carter) o Doug Bailey ( per anni consulente del partito Repubblicano e fondatore di “Thehotline”, il famoso bollettino quotidiano di informazione politica). E ancora l’ex governatore indipendente del Maine, Angus King, oltre ad importanti nomi legati al mondo accademico statunitense. Il movimento conta tra i suoi più entusiasti sostenitori anche Sam Waterston, star della televisione americana, noto agli appassionati della fiction NBC “Law & Order” come il viceprocuratore distrettuale Jack McCoy.
L’idea di Unity08 è scaturita dai risultati di una ricerca, commissionata dal movimento ed effettuata dalla Princeton Survey Research. Lo studio ha dimostrato come ben il 74 per cento degli americani sia insoddisfatto di come vadano le cose nel proprio paese, registrando il dissenso piu’ alto degli ultimi 13 anni. Oltre l’80 per cento degli intervistati, inoltre, non ha avuto dubbi nel sostenere che il proprio paese si sia polarizzato attorno ai partiti Repubblicano e Democratico e che Washington non sembri fare molti progressi per risolvere i problemi nazionali. Ma soprattutto il 73 per cento è d’accordo nel sostenere che sarebbe una buona idea per gli Stati Uniti quella di avere più scelte nelle elezioni presidenziali del 2008 che non siano limitati a quelle proposte dai due partiti esistenti. Unity08 non vuole proporsi all’elettorato americano come un terzo partito. Al contrario vuole dare una scossa a quelli già esistenti, facendo da microfono ai milioni di cittadini che spingono verso un ritorno a posizioni più centriste della politica americana.
© Confronto
La strana coppia sull'asse Usa-Venezuela
di Giulia Francesca Panciera
Il curioso legame d’affari tra Joseph Kennedy II ed il vulcanico presidente venezuelano Hugo Chavez. Un rapporto inconsueto finalizzato a fornire gasolio alle famiglie con basso reddito durante i mesi invernali. “Sono Joe Kennedy. Gli aiuti stanno arrivando”, dice il rampollo alle tv americane e su youtube. E piovono le critiche.
Lui ha un nome, anzi un cognome, che non passa di certo inosservato nella politica Americana: Joseph P. Kennedy II. L’altro ne ha uno che sembra essere il perfetto sinonimo di antiamericanismo: Hugo Chavez. Il primo e’ il fondatore e presidente di una compagnia no profit che si chiama Citizens Energy Corporation, oltre ad essere stato membro del Congresso americano per diversi anni. Il secondo è il presidente socialista del Venezuela, amico e fervido sostenitore della politica di Fidel Castro e del leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Soprattutto è de iure a capo della Citgo, azienda petrolifera sussidiaria della statale Petróleos de Venezuela S A.
La Citizens Energy Corporation, da anni ed attraverso un progetto chiamato “Oil heat Program”, fornisce a prezzo scontato combustibile per il riscaldamento domestico nei mesi invernali in alcune aree degli Stati Uniti. Quest’anno l’azienda ha deciso di avvalersi della collaborazione della Citgo che si e’ resa disponibile nell’offrire, ad un prezzo scontatissimo rispetto a quello di mercato, milioni di litri di combustibile. Grazie a questo accordo, quindi, i cittadini rientranti nei parametri previsti potranno acquistare fino a fino a duecento galloni di gasolio –l’equivalente di circa 750 litri - ad un prezzo scontato del 40 per cento.
“Sono Joe Kennedy. Gli aiuti stanno arrivando”, dice Kennedy nella pubblicità che promuove l’iniziativa sottolineando come questo sia possibile “grazie ai nostri amici della Citgo in Venezuela”. Lo spot, in onda su alcuni canali televisivi americani e reperibile on line su youtube, e’ stato oggetto di numerose critiche. L’ultima, in ordine cronologico, si è manifestata con uno scambio epistolare non propriamente cordiale con Connie Mack, congressman Repubblicano eletto in Florida.
Mack chiede a Kennedy di smettere di mandare in onda una pubblicità che dipinge Chavez, “un comunista auto-dichiarato che governa il popolo venezuelano con il pugno del ferro di un dittatore”, come un uomo che sta servendo una giusta causa. Il congressman chiede inoltre a Kennedy la ragione per la quale abbia deciso di lasciarsi usare come PR per il regime di Chavez. Il quale, da parte sua, proprio nel giorno di San Valentino da Caracas dichiarava: “La mia cara amica Condoleezza dice che sto distruggendo l’economia venezuelana”. Per poi mollare le solite bordate come: “Morte all’impero”, oppure: “Non saremo dominati. Abbiamo deciso di essere liberi”.
© Confronto
Il curioso legame d’affari tra Joseph Kennedy II ed il vulcanico presidente venezuelano Hugo Chavez. Un rapporto inconsueto finalizzato a fornire gasolio alle famiglie con basso reddito durante i mesi invernali. “Sono Joe Kennedy. Gli aiuti stanno arrivando”, dice il rampollo alle tv americane e su youtube. E piovono le critiche.
Lui ha un nome, anzi un cognome, che non passa di certo inosservato nella politica Americana: Joseph P. Kennedy II. L’altro ne ha uno che sembra essere il perfetto sinonimo di antiamericanismo: Hugo Chavez. Il primo e’ il fondatore e presidente di una compagnia no profit che si chiama Citizens Energy Corporation, oltre ad essere stato membro del Congresso americano per diversi anni. Il secondo è il presidente socialista del Venezuela, amico e fervido sostenitore della politica di Fidel Castro e del leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Soprattutto è de iure a capo della Citgo, azienda petrolifera sussidiaria della statale Petróleos de Venezuela S A.
La Citizens Energy Corporation, da anni ed attraverso un progetto chiamato “Oil heat Program”, fornisce a prezzo scontato combustibile per il riscaldamento domestico nei mesi invernali in alcune aree degli Stati Uniti. Quest’anno l’azienda ha deciso di avvalersi della collaborazione della Citgo che si e’ resa disponibile nell’offrire, ad un prezzo scontatissimo rispetto a quello di mercato, milioni di litri di combustibile. Grazie a questo accordo, quindi, i cittadini rientranti nei parametri previsti potranno acquistare fino a fino a duecento galloni di gasolio –l’equivalente di circa 750 litri - ad un prezzo scontato del 40 per cento.
“Sono Joe Kennedy. Gli aiuti stanno arrivando”, dice Kennedy nella pubblicità che promuove l’iniziativa sottolineando come questo sia possibile “grazie ai nostri amici della Citgo in Venezuela”. Lo spot, in onda su alcuni canali televisivi americani e reperibile on line su youtube, e’ stato oggetto di numerose critiche. L’ultima, in ordine cronologico, si è manifestata con uno scambio epistolare non propriamente cordiale con Connie Mack, congressman Repubblicano eletto in Florida.
Mack chiede a Kennedy di smettere di mandare in onda una pubblicità che dipinge Chavez, “un comunista auto-dichiarato che governa il popolo venezuelano con il pugno del ferro di un dittatore”, come un uomo che sta servendo una giusta causa. Il congressman chiede inoltre a Kennedy la ragione per la quale abbia deciso di lasciarsi usare come PR per il regime di Chavez. Il quale, da parte sua, proprio nel giorno di San Valentino da Caracas dichiarava: “La mia cara amica Condoleezza dice che sto distruggendo l’economia venezuelana”. Per poi mollare le solite bordate come: “Morte all’impero”, oppure: “Non saremo dominati. Abbiamo deciso di essere liberi”.
© Confronto
USA 2008: what about Mr.Bloomberg?
di Giulia Francesca Panciera
Dopo le elezioni di mid term cominciano a circolare i nomi dei possibili candidati in corsa per le Presidenziali americane del 2008. Il Sindaco di New York, il magnate Micheal Bloomberg, fa sapere che 500 milioni di dollari da impiegare per una eventuale campagna elettorale per la corsa alla Casa Bianca non sarebbero un problema.
Il settimanale “New York” ha recentemente dedicato la copertina, ed un lunghissimo articolo, all’attuale sindaco della Grande Mela Micheal Bloomberg come possibile candidato alle prossime presidenziali. Lo scenario delle prossime elezioni americane nel 2008, potrebbe quindi ritornare nuovamente ad essere caratterizzato da una corsa a tre, con due candidati espressione dei partiti Repubblicano e Democratico ed un rappresentate indipendente.
Se da un lato si sono fatte gia’ numerose speculazioni sui possibili candidati repubblicani, Rudolph Giuliani ed il Senatore McCain, e democratici, Hillary Rhodan Clinton e Barack Obama, l’elettorato americano sembra non volersi accontentare di una scelta bipartisan.
La conferma viene da un sondaggio, che vedrebbe il 53% degli americani accogliere favorevolmente un terzo candidato contro un 40% contrario a questa ipotesi. L’idea che Micheal Bloomberg, classe 1942, possa candidarsi come indipendente alle prossime elezioni sta passando da semplice “rumor” ad ipotesi presa in considerazione da molti strateghi della politica americana.
Eletto come sindaco di New York nel 2001 e riconfermato nel 2005 con il piu’ grande margine di consenso mai registrato da un candidato Repubblicano in questa citta’, sembra avere tutte le carte in regola per attirare quell’elettorato americano, di centro ma non solo, deluso e insoddisfatto sia dal partito Democratico che dal Gop. Fondatore dell’omonima Bloomberg LP, azienda che produce e distribuisce software e servizi finanziari, Bloomberg e’ considerato uno degli uomini piu’ ricchi del mondo. La sua possibile candidatura come indipendente e’ stata paragonata a quella del multi millionario texano Ross Perot, che nel 1992, a discapito di ogni possibile previsione, si aggiudico’ il 19% dei consensi. Il paragone pero’ sembra solo fermarsi al lato economico, che rappresenta, senza ombra di dubbio un aspetto cruciale.
Mentre tutti i papabili candidati sono alla ricerca continua di finanziamenti per la propria campagna elettorale, Bloomberg ha dalla sua un impero stimato intorno ai 20 miliardi di dollari e, quando si parla di campagne elettorali, ha gia’ dimostrato in passato di non voler badare a spese.
Decidendo di non optare per una raccolta pubblica di fondi, eludendone quindi le restrizioni, Micheal Bloomberg ha personalmente investito nella sue campagne elettorali a sindaco di New York una cifra che si aggira intorno ai 140 milioni di dollari. Non stupisce quindi che abbia candidamente affermato che 500 milioni di dollari, per la corsa alla Casa Bianca, non rappresenterebbero di certo un problema.
© Confronto
Dopo le elezioni di mid term cominciano a circolare i nomi dei possibili candidati in corsa per le Presidenziali americane del 2008. Il Sindaco di New York, il magnate Micheal Bloomberg, fa sapere che 500 milioni di dollari da impiegare per una eventuale campagna elettorale per la corsa alla Casa Bianca non sarebbero un problema.
Il settimanale “New York” ha recentemente dedicato la copertina, ed un lunghissimo articolo, all’attuale sindaco della Grande Mela Micheal Bloomberg come possibile candidato alle prossime presidenziali. Lo scenario delle prossime elezioni americane nel 2008, potrebbe quindi ritornare nuovamente ad essere caratterizzato da una corsa a tre, con due candidati espressione dei partiti Repubblicano e Democratico ed un rappresentate indipendente.
Se da un lato si sono fatte gia’ numerose speculazioni sui possibili candidati repubblicani, Rudolph Giuliani ed il Senatore McCain, e democratici, Hillary Rhodan Clinton e Barack Obama, l’elettorato americano sembra non volersi accontentare di una scelta bipartisan.
La conferma viene da un sondaggio, che vedrebbe il 53% degli americani accogliere favorevolmente un terzo candidato contro un 40% contrario a questa ipotesi. L’idea che Micheal Bloomberg, classe 1942, possa candidarsi come indipendente alle prossime elezioni sta passando da semplice “rumor” ad ipotesi presa in considerazione da molti strateghi della politica americana.
Eletto come sindaco di New York nel 2001 e riconfermato nel 2005 con il piu’ grande margine di consenso mai registrato da un candidato Repubblicano in questa citta’, sembra avere tutte le carte in regola per attirare quell’elettorato americano, di centro ma non solo, deluso e insoddisfatto sia dal partito Democratico che dal Gop. Fondatore dell’omonima Bloomberg LP, azienda che produce e distribuisce software e servizi finanziari, Bloomberg e’ considerato uno degli uomini piu’ ricchi del mondo. La sua possibile candidatura come indipendente e’ stata paragonata a quella del multi millionario texano Ross Perot, che nel 1992, a discapito di ogni possibile previsione, si aggiudico’ il 19% dei consensi. Il paragone pero’ sembra solo fermarsi al lato economico, che rappresenta, senza ombra di dubbio un aspetto cruciale.
Mentre tutti i papabili candidati sono alla ricerca continua di finanziamenti per la propria campagna elettorale, Bloomberg ha dalla sua un impero stimato intorno ai 20 miliardi di dollari e, quando si parla di campagne elettorali, ha gia’ dimostrato in passato di non voler badare a spese.
Decidendo di non optare per una raccolta pubblica di fondi, eludendone quindi le restrizioni, Micheal Bloomberg ha personalmente investito nella sue campagne elettorali a sindaco di New York una cifra che si aggira intorno ai 140 milioni di dollari. Non stupisce quindi che abbia candidamente affermato che 500 milioni di dollari, per la corsa alla Casa Bianca, non rappresenterebbero di certo un problema.
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